“Quella che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo chiama farfalla”.

Non amo molto le citazioni, ma questa di Lao Tzu riassume decisamente quello che penso del cambiamento, le due facce che lo compongono: la paura di cambiare e la pesantezza che da essa deriva e la scelta del cambiamento, che una volta intrapresa trasforma, fa sbocciare di colori, fa volare leggeri e liberi, tanto che chi ci sta attorno si accorge del nostro nuovo stare. Il nuovo essere che sorge da questo cambiamento non è più quello di prima, pertanto non è il bruco a essere consapevole della sua trasformazione, quanto la farfalla a ricordare quando era bruco. Questo è un ciclo continuo, capita in tutti gli esseri viventi e in quelli inanimati, è una legge costante della natura, da micro al macro. Come ogni cosa, anche il cambiamento ha il suo tempo: richiede tempo accorgersi della possibilità di cambiare, comprendere che si ha bisogno di cambiare, superare la paura di cambiare, attuare il cambiamento e ricominciare d’accapo, che prima o poi, inevitabilmente, ci porterà di nuovo a voler cambiare. Possiamo essere molto accoglienti o abbastanza restii al cambiamento, questo dipende molto dal tipo di cambiamento che ci aspetta o dal momento storico che stiamo vivendo.

Anche il corpo cambia. Cambia banalmente perché invecchia, cambia perché subisce un infortunio, cambia per delle abitudini o posture che assumiamo quotidianamente. Analizzando la pratica fisica dello Yoga (tralascerò in questo articolo la parte più legata alla meditazione) possiamo trovare quanto esercitarsi con gli āsana e con il prāṇāyāma riescano a rinforzare e a rendere più flessibile il nostro corpo. Prendo in esame questi due aspetti fra le otto braccia dello Yoga, perché questi due lavorano in sincronia e verso un obiettivo comune.

 

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